Leggiamo sul SOLE 24 ORE questo interessante articolo.
Climate change, due gradi in più costano come 27 volte il debito pubblico italiano
Secondo stime per difetto, il conto per un paio di gradi di riscaldamento si aggira intorno ai 69mila miliardi di dollari entro il 2100: una cifra enorme, che scende a “soli” 54mila miliardi di dollari nel caso l’aumento della temperatura si fermasse a un grado e mezzo. Ma il vero problema sarebbe un riscaldamento superiore ai due gradi, che innescherebbe il temuto “warming feedback loop”. Con esiti davvero imprevedibili
di Enrico Marro
COMMENTO NOSTRO:
27 volte il debito pubblico italiano, che sta gravando come un macigno su 60 milioni di italiani,
significa gravare finanziariamente su UN MILARDO E 600 MILIONI DI PERSONE, CHI SONO CHE POSSONO PAGARE?
SECONDO COMMENTO NOSTRO:
SUL NOSTRO LIBRO “BREVETTANDO RESPIRANDO COME L?ECOLOGIA SI SPOSA CON LA TECNICA” VI SONO ALCUNI BREVETTI CHE AFFRONTANO DIRETTAMENTE IL PROBLEMA DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI E ALTRI CHE LO AFFRONTANO INDIRETTAMENTE
RIPORTIAMO L’ARTICOLO DEL SOLE 24 ORE . A SEGUIRE L’ARTICOLO SULLO STUDIO AUSTRALIANO
C’è poco da scherzare: più tempo aspettiamo a darci seriamente da fare per combattere il climate change, più salato sarà il conto per tutti. Parola di quella Moody’s Analytics che qualche giorno fa ha pubblicato una nuova analisi sulle ricadute economiche del mutamento climatico (“The Economic Implications of Climate Change”). Sulla base anche delle proiezioni dello scorso autunno dell’IPCC, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, Moody’s Analytics calcola che il costo di un innalzamento della temperatura di due gradi centigradi si aggirerebbe intorno ai 69 trilioni di dollari entro il 2100, circa 27 volte il debito pubblico italiano.
Un conto salatissimo, che scenderebbe a 54 trilioni di dollari qualora l’aumento della temperatura si fermasse a un grado e mezzo. Cifra comunque mostruosa, ma che almeno eviterebbe il peggio: secondo diverse scuole di pensiero scientifiche un innalzamento di oltre due gradi potrebbe contribuire a innescare il temuto “warming feedback loop” , micidiale scenario in cui il pianeta reagirebbe all’aumento della temperatura amplificando il riscaldamento, e rendendo inutile ogni (tardivo) sforzo per abbattere le emissioni.
Tra l’altro la stessa Moody’s Analytics ammette che le stime sull’impatto economico sono per difetto, poiché non tengono per esempio conto delle catastrofi naturali , che nel 2017 nei soli Stati Uniti sono costate oltre 300 miliardi di dollari.
Sul climate change il mondo dell’economia e della finanza, abituato a pensare solo a medio termine, non deve essere miope. Come spiega il capoeconomista di Moody’s Analytics, Mark Zandi, «gli effetti più draconiani del cambiamento climatico non verranno avvertiti fino al 2030 e oltre, e non diventeranno particolarmente pronunciati fino alla seconda metà di questo secolo».
Buona parte degli stessi modelli previsionali non si spingono oltre i prossimi trent’anni, spiega Zandi, ma è dal 2050 in poi che la situazione potrebbe davvero sfuggirci di mano se non avremo lavorato sodo. «Il mondo di economia, finanza e politica si concentra sul prossimo anno – continua il capoeconomista di Moody’s Analytics – o al massimo sui prossimi cinque, e questo rende difficile una risposta immediata e molto determinata al problema».
Secondo il report, il cambiamento climatico impatterà sull’economia mondiale attraverso sei canali: aumento del livello dei mari, peggioramento della salute, diminuzione della produttività del lavoro, turismo, domanda di energia e soprattutto agricoltura.
Il riscaldamento globale e l’aumento dell’umidità sono destinati a colpire con durezza le economie dei Paesi emergenti localizzati in zone climatiche calde (come Algeria, Malesia, Filippine e Thailandia) ma anche quelle di Stati produttori di petrolio (in particolare Arabia Saudita, Qatar e Oman).
LO STUDIO AUSTRALIANO
«Così nel 2050 la civiltà umana collasserà per il climate change»
Un’allarmante analisi dei ricercatori del National Center for Climate Restoration australiano delinea uno scenario in cui entro il 2050 il riscaldamento globale supererà i tre gradi centigradi, innescando alterazioni fatali dell’ecosistema globale e colossali migrazioni da almeno un miliardo di persone. Ecco cosa potrebbe avvenire anno dopo anno
di Enrico Marro
Climate change, cosa succede se non fermiamo il riscaldamento globale
Un decennio perduto. Tra il 2020 e il 2030 i policy-maker mondiali sottovalutano clamorosamente i rischi del climate change, perdendo l’ultima occasione per mobilitare tutte le risorse tecnologiche ed economiche disponibili verso un unico obiettivo: costruire un’economia a zero emissioni cercando di abbattere i livelli di CO2, per avere una possibilità realistica di mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei due gradi. L’ultima occasione viene clamorosamente bruciata.
Il risultato è che nel 2030, come avevano ammonito tredici anni prima gli scienziati Yangyang Xu e Veerabhadran Ramanthan in una pubblicazione scientifica che aveva fatto discutere, le emissioni di anidride carbonica raggiungono livelli mai visti negli ultimi due milioni di anni. Nel ventennio successivo si tenta di porre rimedio alla situazione, ma è troppo tardi: nel 2050 il riscaldamento globale raggiunge tre gradi, di cui 2,4 legati alle emissioni e 0,6 al cosiddetto “carbon feedback”, la reazione negativa del pianeta al riscaldamento globale.
L’anno 2050 rappresenta l’inizio della fine. Buona parte degli ecosistemi terrestri collassano, dall’Artico all’Amazzonia alla Barriera corallina. Il 35% della superficie terrestre, dove vive il 55% della popolazione mondiale, viene investita per almeno 20 giorni l’anno da ondate di calore letali. Il 30% della superficie terrestre diventa arida: Mediterraneo, Asia occidentale, Medio Oriente, Australia interma e sud-ovest degli Stati Uniti diventano inabitabili. Una crisi idrica colossale investe circa due miliardi di persone, mentre l’agricoltura globale implode, con raccolti crollati del 20% e prezzi alle stelle, portando ad almeno un miliardo di “profughi climatici”. Guerre e carestie portano a una probabile fine della cività umana così come la intendiamo oggi.
Solo un romanzo di fantaecologia? Purtoppo no: quello che abbiamo letto qui sopra è uno studio scientifico ben documentato dei ricercatori del National Center for Climate Restoration australiano, guidati da David Spratt e Ian Dunlop, dal sinistro titolo “Existential climate-related security risk”.
L’ipotesi dello studio è che esistano rischi di riscaldamento globale non calcolati dagli Accordi di Parigi e in grado di porre “rischi esistenziali” alla civiltà umana. Le ipotesi di climate change delineate nel 2015 dagli Accordi di Parigi, pari a un aumento di tre gradi entro il 2100, non tengono infatti conto del meccanismo di “long term carbon feedback” con cui il pianeta tende ad amplificare i mutamenti climatici in senso negativo, quindi portaando a un ulteriore aumento della temperatura.
27 giugno 2019
GLOBAL WARMING
Cambiamento climatico, perché mezzo grado in più fa tutta la differenza del mondo
di Gabriele Meoni
(REUTERS)
MODELLI A CONFRONTO
Con il climate change la Terra è sull’orlo di una crisi sistemica: «È la Lehman del clima»
di Elena Comelli
NUOVO STUDIO AUSTRALIANO
«Così nel 2050 la civiltà umana collasserà per il climate change»
Se si tiene conto anche del “carbon feedback”, secondo diverse fonti tra le quali scienziati del calibro di Yangyang Xu e Veerabhadran Ramanathan, esiste un concreto rischio di arrivare a tre gradi di riscaldamento già nel 2050, che salirebbero a cinque gradi entro il 2100. La cività umana non farebbe in tempo a vederli, poiché la maggior parte degli scienziati ritiene che un aumento di quattro gradi distruggerebbe l’ecosistema mondiale portando alla fine della civiltà come la conosciamo oggi. Una china pericolosa in cui, come nota Hans Joachim Schellnhuber del Potsdam Institute, probabilmente «la specie umana in qualche modo sopravviverà, ma distruggeremo tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi duemila anni».
Il vero problema, sottolinea lo studio australiano, è rappresentato da alcune “soglie di non ritorno” climatiche come la distruzione delle calotte polari e il conseguente innalzamento del livello del mare. “Soglie di non ritorno” molto pericolose che, una volta oltrepassate, trasformerebbero il climate change in un evento non lineare e difficilmente prevedibile con gli strumenti oggi a disposizione della scienza. Dopo il superamento di quei “punti di non ritorno” il riscaldamento globale si autoalimenterebbe anche senza l’azione dell’uomo, rendendo inutile ogni tardivo tentativo di eliminare le emissioni. Quello della fine della civiltà umana è un rischio minimo ma non assente, sottolinea Ramanathan, che lo stima al 5% («e chi prenderebbe un aereo sapendo che ha il 5% di possibilità di schiantarsi?», nota lo scienziato). È oggi che dobbiamo agire, conclude lo studio: domani potrebbe essere troppo tardi.